Il Colle di Cadibona è comunemente considerato il limite fra le Alpi e gli Appennini.
Il fatto dipende dall’essere in questa zona l’abbassamento della catena montuosa più esteso che altrove, non presentando cime superiori ai mille metri per molti chilometri.
La quota di m. 436 toccata dalla carrozzabile non è l’altitudine naturale del valico, ma quella dello sbocco della galleria artificiale.
L’esatto punto (geografico) d’incontro si trova invece allo storico Colle di Cadibona, pari a m. 458, già indicato duemila anni fa da Strabone come inizio delle Alpi.
Altre denominazioni lasciano sottintendere ricerche senza un accurato studio delle fonti storiche.
“Di altezza modesta, 458 metri per qualcuno 465, a breve distanza dalla costa (appena 6 chilometri in linea d’aria), tutt’altro che inaccessibile, tant’è vero che diventò il punto nodale dell’intera rete di comunicazione con la Val Bormida ed il Piemonte, il Colle di Cadibona assumeva ai nostri occhi di fanciulli una dimensione quasi mitica, collocandosi al centro del nostro immaginario come il punto d’origine di tutto il mondo che ci era familiare. I testi scolastici erano perentori e vaghi nello stesso tempo: «le Alpi iniziano al Colle di Cadibona, presso Savona», «gli Appennini nascono al Colle di Cadibona, presso Savona»”.
Tratto da: Ricordate il Colle di Cadibona, inserto CARA SAVONA, de IL SECOLO XIX.
“Si trova a Cadibona una stazione di cavalli da posta,
E non molto all’insù giace una torre, ove a sicurezza
dei confini, solevano a tempo del genovese governo,
soggiornare alquanti militi corsi. Dopo breve cammino
si giunge alla vetta, ove poco sotto esiste una miniera
di carbon fossile negli anni addietro scavata, ma
presentemente quasi negletta. Si deve il merito di tale
Scoperta avvenuta nel 1786, ad uno svizzero ufficiale
al servizio della genovese repubblica.”
G. NAVONE, 1827
Digressioni in Val Bormida, Altare, Carcare, Cairo.
I ponti romani lungo la valle del torrente Quazzola, che mette in comunicazione Quiliano con Cadibona, sono uno dei complessi monumentali più importanti della Liguria romana di epoca imperiale.
Si tratta di un insieme di sei ponti, costruiti alcuni su modesti corsi d’acqua laterali al fine di rendere percorribile in qualunque periodo dell’anno la via consolare Aemilia Scauri (attuale via Tecci) e dare al tracciato una continuità altimetrica che, escluso brevi tratti, non presenta pendenze rilevanti.
Dei sei antichi ponti, due sono in buono stato di conservazione e tuttora carrabili, uno è scomparso, mentre degli altri tre non restano che pochi ruderi.
Il primo dei due ponti ancora in uso, il secondo risalendo la valle, è situato in località Ricchini e porta la strada dall’argine destro a quello sinistro. Ad una sola arcata, ha un doppio ordine di conci di pietra con tratti dell’originale paramento murario a piccoli blocchi, tipico della Provenza e della Liguria Occidentale del primo-secondo secolo d.C.
L’arco a tutto sesto, intatto nella sua struttura architettonica, poggia su due basamenti rocciosi rosi dallo scorrere delle acque.
La larghezza del ponte, di oltre cinque metri, mette in evidenza la notevole importanza dell’arteria viaria che permetteva il passaggio di due carri o di due colonne soldati.
L’altro ponte, situato in località Ca chen, riporta l’asse stradale in sponda destra.
Come il precedente ha un arco sottolineato da una doppia fila di conci tagliati a parallelepipedo e presenta la stessa tessitura muraria in piccoli blocchi di pietra locale. Poggia sul greto su due spalle, di cui una a pilastro, e presenta una risega nella parte interna dell’arco.
Intorno a questi due ponti nel Medioevo fiorirono numerose leggende: pare che fossero il luogo preferito dalle streghe per i loro incontri…
LA TORRE
La Torre venne costruita dalla Civitas savonese all’inizio del XVI secolo.
I motivi che indussero i savonesi a costruire questa fortificazione furono certamente molti, come ad esempio preservare il bosco camerale dai tagli abusivi di legname e difendere i mercanti che percorrevano la strada con merci o con i proventi della vendita.
In seguito, sotto il dominio di Genova, divenne luogo di pagamento di dazi e gabelle e di fermo per eventuali banditi, controllato delle Guardie Corse.
Verso la fine del XVIII secolo, la Torre si presentava come una vera e propria struttura difensiva, dotata di quattro cannoni e provvista di acqua, raccolta in una cisterna, e di depositi dove conservare scorte alimentari e munizioni. Al suo esterno, lungo i contrafforti di destra e di sinistra, furono scavate trincee in grado di contenere fino a mille soldati.
Presidio difensivo dei francesi, durante le campagne d’Italia del Generale Napoleone Bonaparte fu per due volte campo di battaglia tra l’esercito francese e quello austro-piemontese.
L’edificio originario ha pianta quadrata e si sviluppa su tre piani, collegati da una scala elicoidale in pietra.
La base presenta una bassa scarpatura sui due lati ed il piano sottotetto è dotato di quattro guardiole pensili angolari. Verso la fine del XIX secolo la Torre, divenuta proprietà privata, fu riadattata a villa addossando al lato sud-est un corpo più basso, coperto a terrazza.
Nel primo quarto del XVII secolo, i cadibonesi, a causa della distanza che li separava dalla chiesa parrocchiale di Quiliano, diedero inizio alla costruzione di una cappella o oratorio campestre per aver vicino un luogo di preghiera. Il 5 aprile 1623 chiesero al Vescovo di Savona l’autorizzazione al culto, rilasciata al parroco di S. Lorenzo di Quiliano il 26 Gennaio 1625, con licenza di benedire l’Oratorio Campestre sotto il titolo di S. Antonio e S. Anna.
Nel 1627 il vescovo Francesco Maria Spinola, constatata l’effettiva difficoltà data dalla distanza alla chiesa parrocchiale, riconosce il diritto di costituirlo in parrocchia, previa formazione di un beneficio parrocchiale che garantisse il sostentamento di un sacerdote. Ciò avvenne solo verso la fine del secolo successivo e la piccola chiesa fu eretta a parrocchia il 18 settembre 1797.
La primitiva cappella, ad un’unica navata con campanile in facciata, fu ampliata tra il 1826 ed il 1860. Si procedette alla costruzione di un nuovo campanile e delle navate laterali, ed infine al prolungamento dell’intera costruzione, completata con l’acquisto dell’altare maggiore e del coro ligneo. Successivi interventi significativi sono la decorazione della volta centrale con affreschi eseguiti per il primo centenario della parrocchia (anno 1897) dal pittore Federico Dagnino e la ristrutturazione della facciata nella forma attuale, nell’anno 1905.
La costruzione del monumento antistante la chiesa risale invece all’anno 1925.
LA MINIERA DI LIGNITE
Scoperta casualmente nel 1786 ad opera di un cacciatore che mostrò il pezzo di lignite nel quale era inciampato ad un ufficiale svizzero al servizio della repubblica di Genova, la miniera di Cadibona, per via della vantaggiosa vicinanza al mare ed al porto di Savona e l’ubicazione nei pressi dell’importante valico del Colle di Cadibona, che poteva agevolare le comunicazioni e le relazioni commerciali tra il litorale e la Val Bormida (e quindi la Francia), attirò fin dal principio l’attenzione del regime napoleonico che vedeva nell’estrazione del carbon fossile la chiave di volta dei progetti di sviluppo industriale concepiti dallo statista Gilbert Chabrol de Volvic.
A lungo sotto la guida dei marchesi Doria, poi dei Pallavicini, il giacimento raggiunse fra il 1857 ed il 1864 il periodo di massima attività: alcune fonti riportano una produzione di ben 25000 tonnellate (due terzi delle quali destinate al mercato nazionale, mentre il resto inviato fino ad Alessandria d’Egitto) per una forza lavoro di circa 300 operai.
Nel 1887 la miniera, considerata esaurita, venne abbandonata. Durante i conflitti mondiali, lo sfruttamento del giacimento costituì nuovamente il centro dell’economia cadibonese.
Nel 1952 la miniera venne definitivamente abbandonata, dopo due anni di gestione operaia sotto forma di cooperativa ma con scarsi risultati, in quanto ormai le numerose difficoltà nello smercio della lignite ne rendevano antieconomico lo sfruttamento.
L’Anthracotherium (termine di origine etimologica greca, che significa “Grande mammifero del carbone”) fu tra i primi mammiferi che apparvero sulla terra ed appartiene al vasto ordine degli artiodattili, sottordine dei suiformi. Vissuto tra i cinquanta e i venti milioni di anni fa, ebbe una rapida evoluzione ed una altrettanto rapida estinzione. Il suo aspetto, corpo tozzo con zampe corte, il suo habitat naturale, le zone acquitrinose con vegetazione molto fitta, la sua presenza nei sedimenti lignitici, fanno sì che lo si possa ritenere un animale erbivoro – sebbene con dentatura adatta anche ad una alimentazione di tipo onnivoro – dalle abitudini anfibie analoghe a quelle degli ippopotami.
Negli esemplari più grandi poteva raggiungere l’altezza di 1,20 – 1,50 metri al garrese ed il peso di 250 chili.
“Esiste nei pressi di Cadibona, villaggio a qualche miglio sopra Savona, ai piedi della grande cresta dell’Appennino, un banco di carbone di terra dello spessore di quattro o cinque piedi…esso non presenta alcuna impronta importante di vegetale, cosa tanto rimarchevole quanto rara in questo genere di strati; contiene ossa di animali (terrestri) sconosciuti”.
Questo è quanto scriveva il naturalista francese Georges Cuvier (1769 -1832), membro e segretario perpetuo dell’Accademia delle Scienze a Parigi, fondatore dell’Anatomia Comparata e della Paleontologia come scienza, in merito all’importante scoperta dell’animale fossile a cui diede il nome di Anthracotherium, rinvenuto nell’anno 1872 nell’alveo del rio Magnone, compreso nell’area di concessione della miniera di Cadibona.
Tra i resti fossili rinvenuti a Cadibona, uno in particolare aveva attirato l’attenzione del paleontologo Senofonte Squinabol che nel 1887 aveva partecipato al Congresso della Società Geologica Italiana, organizzato per l’aggiornamento della Carta Geologica delle Riviere Liguri e delle Alpi Marittime, tenuto a Savona.
Nel 1890 lo studioso scriveva in Cenni preliminari su un cranio ed altre ossa di Anhracotherium Magnum Cuvier di Cadibona: “Oltre ai tanti frammenti più o meno interessanti di Anthracotherium Magnum Cuvier, provenienti dalle ligniti di Cadibona…esiste scavato già da qualche anno, ma non noto che a pochi, e non descritto, un magnifico cranio completo di questo animale, colla mandibola inferiore, una scapola, una parte di bacino, alcune vertebre, il tutto incastrato in un grosso pezzo di molassa”, formulando poi alcune preliminari considerazioni scientifiche, con la promessa di un esame più approfondito. In tale progettato studio, un’analisi di circa quaranta reperti pubblicata l’anno seguente, con una descrizione scientifica molto complessa e basata su considerazioni soprattutto in merito alla dentizione, lo Squinabol concluse che nel bacino di Cadibona erano presenti almeno cinque tra le nove specie conosciute di questo animale.
LA SCUOLA
Il percorso che porta alla costruzione dell’edificio scolastico è stato lungo e travagliato.
La prima notizia riguardante l’istruzione scolastica risale al 1742 quando due preti, i fratelli Pollero, “insegnavano a leggere e a scrivere ai ragazzi”. Poi per oltre un secolo non si hanno testimonianze documentate di attività scolastica.
Nel 1876, come si può rilevare dal registro delle delibere parrocchiali, il comune di Quiliano fece richiesta al consiglio di fabbriceria dell’acquisto di un immobile, nei pressi e di proprietà della chiesa, da adibire ad edificio scolastico. Il consiglio si espresse favorevolmente, ma la trattativa non andò a buon fine.
Pare che questo fosse stato il primo tentativo di dare una sede stabile alla scuola ed ancora per parecchi anni dunque, si dovette ricorrere a sistemazioni provvisorie, che spesso comportavano la divisione delle classi in vari edifici.
Si è a conoscenza, tramite memorie popolari, del fatto che il prete Bernardo Pollero ed il cappellano Luigi Scarone si dedicassero all’insegnamento scolastico. Probabilmente anche negli anni a seguire l’istruzione sarà in parte affidata ai preti, come si trova in una relazione del parroco del 1911, nella quale si annota la presenza di un cappellano stipendiato dal comune “per far scuola”.
Dai cadibonesi viene ricordato in particolare don Stefano Ghersi che resterà per molti anni in veste di insegnante a Cadibona. Nel 1890 giunse da Genova una giovane maestra, la signorina Emilia Della Casa, che si sposerà a Cadibona e vi insegnerà fino al 1929, quando lascerà l’insegnamento alle maestre Giuseppina Giasotto e Rosa Maniero Basso.
La maestra Mariù Zunino Resca insegnò a Cadibona dal 1928 al 1973 per ben 45 anni.
Nell’anno 1948 la scuola avrà finalmente una sede stabile nel nuovo fabbricato costruito in località Magnone, e rimarrà attiva fino al 1996.
LA STORIA DI FELICE POLLERI
Prete Felice Polleri è il più importante personaggio a cui Cadibona abbia dato i natali. Di famiglia benestante, i suoi erano “mercanti” ascritti allo Stato delle Anime del quartiere di Cadibona, ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende che si conclusero con l’erezione di questa a sede parrocchiale. Egli, come altri preti del suo tempo, non era titolare di parrocchia, ma viveva nella casa paterna.
Contribuiva a portare avanti quei traffici tra la Riviera e l’entroterra ai quali tanti si dedicavano, trasportando a dorso di mulo merce acquistata per farne commercio o offrendosi come semplici fornitori di “basto”. Nel periodo che precedette l’entrata in Val Bormida dell’esercito francese, mise uomini e bestie, per trasportare armi e vettovaglie, al servizio dei due eserciti, Piemontese e Francese, schierandosi poi apertamente con questi ultimi e giungendo ad ospitare nella sua casa gli stessi generali. Con la conquista dell’Italia Settentrionale e l’ascesa al potere di Napoleone, egli entrò a far parte di quel gruppo di patrioti filo francesi definiti “Novatori”, occupando cariche importanti all’interno del sistema politico di quel tempo. Con la caduta di Bonaparte e la rivincita dei suoi nemici, rientrò nell’anonimato e finì i suoi giorni lontano da Cadibona, in quanto non esiste nei registri parrocchiali l’atto relativo alla sua morte.
Felice Polleri fu uomo interessato alle cose del mondo, ma sensibile ai problemi della sua gente e della sua terra. Forse solo analizzando l’ambiente in cui uno cresce, si può cercare di capirne la personalità, personalità che difficilmente l’istruzione può cambiare. Egli era figlio di mulattieri, professione che svolgeva lui stesso e, del resto, della moralità dei religiosi di quei tempi, ne parla lo stesso Scovazzi: in quegli anni erano tanti i giovani che sceglievano questa strada, essendo per la maggior parte di loro l’unico modo per accedere allo studio e ad una vita dignitosa
IL CANALE DELLA BORMIDA
Il grandioso progetto di un canale navigabile che avrebbe unito il Mar Ligure con la laguna veneta attraverso alcuni affluenti del Po e poi il Po stesso fu al centro dei progetti dello statista Chabrol, prima studioso ed attento conoscitore del territorio del Dipartimento di Montenotte e delle potenzialità del porto di Savona, e poi prefetto della città tra il 1806 ed il 1812. Un disegno forse utopico ma ingegnoso, poiché avrebbe consentito di far convergere al porto savonese gran parte del traffico attraverso i valichi alpini fra Europa centrale e Mediterraneo.
Il progetto impegnò profondamente Chabrol (il quale si stava persino occupando di dotare Savona di un condotto di acqua potabile, al quale si provvide soltanto circa un secolo dopo) ed un gran numero di ingegneri francesi furono mandati in città dal governo parigino per elaborare fino al dettaglio un’opera maestosa e di estrema importanza economica. Si trattava in sostanza di effettuare scavi lungo il tratto Savona – Acqui ed opere idrauliche tra Acqui ed Alessandria.
Il canale, partendo dal porto di Savona ed attraversando la città, avrebbe dovuto costeggiare, mediante chiuse e bacini solidamente sbarrati, il Letimbro fino a Lavagnola, quindi il Lavanestro fino a Cadibona, per poi giungere fino a Ferrania (toccando località importanti ai fini del nostro studio, denominate del ponte, degli Spinola, dei Boselli, della Torre Ricci, del Molino, di Ciantagalletto, di S. Giacomo del Bosco, di Montemoro, dei Fratti, delle Canne, della Fontana, delle Capanne, dei Durando, del grande acquedotto, della Croce, di Cadibona, del Bricco, della Molinara, dei Doria, della Torre, dei Borelli, del vecchio corpo della guardia, del Rastrello, dei Lodi). La lunghezza prevista era di circa 17,5 chilometri, per una larghezza media tra i 7 e gli 80 metri e per una spesa preventivata di 7.702.519 lire.
Nel tratto tra Ferrania ed Alessandria, che toccava le località principali di Bragno, Cairo Montenotte, Rocchetta, Dego, Piana Crixia, Spigno Monferrato ed Acqui Terme, la lunghezza venne valutata in circa 81,5 chilometri, per una spesa complessiva di Lire 12.548.056. La pendenza del canale dal versante settentrionale avrebbe segnato 220 metri e dal lato meridionale 388 metri.
Lo Chabrol avrebbe utilizzato le acque del fiume Bormida di Millesimo, ed all’occorrenza quelle del Tanaro, per poter raggiungere il corso del Po. Era inoltre prevista la costruzione di una galleria di circa 3 chilometri attraverso la cresta dell’Appennino per convogliare le acque nel secondo versante, con due grandi bacini, l’uno presso Altare in località Isola Grande (dalla capienza prevista di mc 4.500.000 di riserva d’acqua), e l’altro sopra Ferrania (dalla capienza prevista di mc 6.500.000).
Un progetto così ambizioso, nato tra non poche polemiche, avrebbe sicuramente contribuito allo sviluppo dell’economia savonese – e non solo – nella quale il Colle di Cadibona avrebbe avuto un ruolo fondamentale.
Per non dimenticare…
Il bombardamento di Cadibona
Di quella giornata molti sono i ricordi nella memoria dei cadibonesi, ed alcuni anziani ci hanno raccontato un episodio significativo per esprimere il dramma di quella situazione.
“Il giorno 12 agosto 1944, poco prima di mezzogiorno, i bombardieri anglo-americani giungono dal mare di Vado e proseguono la rotta verso Monte Burot; virano poi verso il Forte Teglia ed ancora verso Cadibona dove iniziano il bombardamento della vallata lungo la ferrovia, che forse era il principale obbiettivo, proseguendo in direzione Monte Ciuto, il cui forte era presidio italiano.
Due donne che in mattinata si erano recate al mulino di Altare si trovavano poco dopo mezzogiorno sulla via del ritorno, quando, poco prima della galleria, incontrano alcuni uomini che, visti gli aerei e sentiti il fragore delle bombe, erano giunti al Rastello per vedere che cosa stesse succedendo. Questi raccontano loro quanto avevano visto: Cadibona avvolta in una nuvola di fumo e polvere.
Le due donne, che a Cadibona avevano lasciato i familiari, angosciate ma consapevoli che comunque avrebbero dovuto accertarsi delle loro condizioni, si avviano verso casa pronte al peggio, tra i soldati della Divisione San Marco che sparavano agli alberi lungo la strada ridendo.
Fortunatamente trovano tutti salvi ed anche le notizie che giungevano dalle borgate erano confortanti: molta paura ma nessun morto, soltanto alcuni feriti in modo lieve. Solo verso le cinque del pomeriggio il fumo e la polvere dissolvendosi lasciavano intravedere la vallata: per fortuna anche i danni alle abitazioni, già modeste a causa della miseria della guerra, erano limitati a tanti vetri rotti ed a qualche tetto scoperchiato a causa degli spostamenti d’aria provocati dalle esplosioni”.
Quella mattina vennero contati oltre quaranta stormi di sette aerei ciascuno. Furono cinquantasei le bombe lanciate sulla vallata fino a Prato del Pero, mentre nell’area intorno a Monte Ciuto le bombe cadute sarebbero state alcune centinaia, causando sei morti e numerosi feriti tra i militari italiani e diversi danni agli armamenti ed alle strutture del forte.